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Un linguaggio di simboli e di segni? di Bruno Munari
1 Gennaio 2010 (tratto da: Arte come mestiere di Bruno Munari; Laterza Editori; Bari 2009)
Gran parte delle nostre attività sono oggi condizionate da segni e simboli, usati, per ora, solo a scopo di comunicazione e informazione visiva. Ogni segno e ogni simbolo hanno un significato preciso di valore internazionale: qualunque persona, in qualunque parte del mondo sa che cosa deve fare quando si trova di fronte a un segnale stradale. Siamo ormai condizionati a muoverci secondo le indicazioni di questi segnali ai quali non possiamo trasgredire, salvo punizione. Nella circolazione pubblica i nostri movimenti sono rigorosamente condizionati, come velocità, come direzione, come precedenza, allineamento, fermate.
In questo caso, per esempio, nessuno può fare ciò che vuole; ognuno di noi fa parte di un organismo più vasto che è la società umana e come nel nostro corpo ogni piccolo organo deve vivere in armonia con gli altri organi, così noi dobbiamo circolare in armonia con gli altri. Una trasgressione alle regole viene considerata come qualcosa di pericoloso da eliminare, perchè blocca tutto l'organismo.
I segnali stradali sono i più conosciuti, ma nella società in cui viviamo ci sono molti altri simboli e segnali per ogni attività umana: uno schema per impianto elettrico è comunicato a base di segni convenzionali; i metereologi comunicano tra loro per mezzo di segni particolari; ci sono i segni dei correttori di bozze e quelli dei boy-scouts, quelli dei segnali ferroviari, degli orari, della nautica, degli impianti industriali e perfino i mendicanti usano un linguaggio di segni per informarsi tra loro se si può andare in un certo posto, se le guardie sono buone o cattive, se si riceve l'elemosina ecc.
Un tempo c'erano i simboli dell'araldica, i marchi dei muratori e degli scalpellini, i simboli degli alchimisti. Oggi ci sono i marchi di fabbrica, le sigle internazionali, i segni delle linee aeree, tutti con valore internazionale.
Naturalmente tutti conoscono i segnali stradali perchè sono costretti a impararli se vogliono circolare, ma quando anche gli altri segni delle altre categorie, come i segni matematici e i segni musicali, saranno più diffusi, allora, forse, si potrà cercare di esprimersi per segni e simboli, di combinare segni tra loro come avviene nelle scritture ideografiche, cinese e giapponese. In queste antiche scritture i segni hanno un valore di immagine o di idea quando sono da soli e un valore diverso quando sono in combinazione. Questo principio, a base logica, è usato anche nelle nostre comunicazioni visive: nel linguaggio dei metereologi un asterisco a sei braccia significa "neve", un triangolo con la punta in basso significa "cielo temporalesco"; i due segni accoppiati significano "tempesta di neve".
Nel mondo dei mendicanti un segno fatto di due cerchi che parzialmente si sovrappongono vuol dire "attenzione", un triangolo con la punta in alto e due specie di braccia alzate vuol dire "uomo armato". Un grande triangolo con tre piccoli triangolini vuol dire "raccontare una storia pietosa", evidentemente il triangolo maggiore rappresenta la mamma e i piccoli rappresentano i bambini.
In un certo senso uno schema per un impianto elettrico fatto di simboli e di collegamenti altro non è che un discorso sintetico fatto tra competenti, un discorso preciso con tutti i particolari e le informazioni esatte, ossia: comincia a fare un collegamento con l'esterno, a due metri sopra la porta centrale, metti una valvola, fusibile, collega l'impianto con tre lampade al soffitto, metti un interruttore qui, una presa di corrente bipolare là...
Se noi ora proviamo a usare tutti questi segni e simboli, mescolandoli secondo una necessità di espressione, supponendo che essi siano già noti, come lo saranno in futuro, possiamo cercare di fare un racconto che abbia un senso? E' chiaro che ci vuole anche una certa elasticità di lettura, di interpretazione: se metto un segno di "valvola fusibile" tra il segno di "uomo" e di "donna", non significherà che bisogna mettere una valvola tra i due esseri umani ma che c'è tra i due, un pericolo di fusione, di variazione di tensione. Proviamo a usare i simboli come si usano le parole nelle poesie: parole che hanno più di un significato e che secondo come e dove sono messe cambiano espressione. Possiamo dare la situazione atmosferica con i segni metereologici, il moto e la direzione coni segni stradali, le cose e gli oggetti con i loro simboli, certe sensazioni con i segni dei mendicanti... o con i segni dell'elettronica.
Il segno "interruttore" può interrompere una azione, il segno di "miraggio" può avere altri significati, il segno di "precedenza", di "stop", di "aspettare" o di "strettoia" possono avre altri significati se sono vicini ad altri segni. Il discorso dovrebbe essere molto chiaro, in certi punti troppo chiaro, in altri addirittura ermetico come nella poesia.
Sarà questo il linguaggio internazionale del prossimo futuro? In parte forse si. Già lo è nei vari settori: i metereologi di tutto il mondo lo usano, e così gli elettrotecnici ecc., ma non è ancora usato per raccontare una storia: questa è la prima prova del genere.
(in foto: Segni di Senso; Bruno Munari)
Kandinskij . PUNTO
1 Dicembre 2009 (tratto da: Punto Linea Superficie di Wassily Kandinskij; Adelphi edizioni; Milano 1968)
Il Punto geometrico è un'entità invisibile. Deve quindi essere definito come un'entità immateriale. Pensato materialmente, il punto equivale ad uno zero.
Ma in questo zero si nascondono diverse proprietà, che sono "umane". Noi ci rappresentiamo questo zero - punto geometrico - come associato con la massima concisione, cioè con estremo riserbo, che però parla. In questo modo, nella nostra rappresentazione, il punto geometrico è il più alto e assolutamente l'unico legame fra silenzio e parola.
E perciò il punto geometrico ha trovato la sua forma materiale, in primo luogo, nella scrittura - esso appartiene al linguaggio e significa silenzio.
Nello scorrere del discorso, il punto è il simbolo dell'interruzione, del non essere (elemento negativo), e , nello stesso tempo, è un ponte da un essere a un altro essere (elemento positivo). Questo è il suo significato interno nella scrittura.
Visto dall'esterno, si tratta qui solo di un segno usato funzionalmente, che porta in sé l'elemento del "pratico funzionale", che noi conosciamo fin da bambini. Il segno esterno diventa un'abitudine e vela il suono interno del simbolo.
L'interno viene murato dall'esterno.
Il punto appartiene al cerchio più stretto dei fenomeni abituali col loro suono tradizionale, che è muto.
Il suono del silenzio, che viene abitualmente associato col punto, è così forte, da coprire completamente tutte le altre proprietà.
Tutti i fenomeni tradizionalmente abituali sono resi muti dal loro linguaggio unilaterale. Non udiamo più la loro voce e siamo circondati dal silenzio. Soccombiamo all'elemento "pratico-funzionale".
Qualche volta una scossa straordinaria è in grado di strapparci da uno stato di morte a un sentire vivo. Ma non di rado anche la scossa più forte non riesce a trasformare lo stato morto in uno stato vivo.
Le scosse che provengono da fuori (malattia, infelicità, affanni, guerra, rivoluzione), strappano con violenza, per un tempo più o meno lungo, dal cerchio delle abitudini tradizionali, ma vengono considerate generalmente solo come un'"ingiustizia" più o meno grave. Così prevale su tutti gli altri sentimenti il desiderio di tornare, nel più breve tempo possibile, alla condizione abbandonata delle abitudini tradizionali.
Le scosse che provengono dall'interno sono di natura diversa - sono causate dall'uomo stesso e trovano in lui stesso un terreno idoneo. Questo terreno non è la capacità di osservare la "strada" solo attraverso il "vetro", che è duro, saldo, ma si può facilmente rompere, bensì la capacità di uscire in strada. L'occhio aperto e l'orecchio vigile trasformano le più piccole scosse in grandi esperienze. Da tutte le parti affluiscono voci e il mondo risuona. Come esploratori che si addentrano in paesi nuovi e sonosciuti, noi facciamo scoperte nel "mondo quotidiano", e il nostro ambiente, altrimenti muto, comincia a parlare in un linguaggio sempre più chiaro. Così i segni morti diventano simboli viventi, e ciò che è morto diventa vivo.
Naturalmente anche la nuova scienza dell'arte può nascere soltanto se i segni diventano simboli e se l'occhio aperto e l'orecchio vigile rendono possibile il passaggio dal silenzio alla parola. Chi non può farlo è meglio che lasci in pace l'arte "teorica" e "pratica" - le sue preoccupazioni artistiche non creeranno mai un ponte, ma allargheranno sempre più la scissione attuale fra l'uomo e arte. Proprio queste persone si sforzano oggi di mettere un punto finale dopo la parola arte.
Se si estrae gradualmente il punto dallo stretto cerchio della sua efficacia abituale, le sue proprietà interne, che fino a quel momento erano rimaste silenziose, acquistano un suono che cresce sempre di più.
Queste proprietà - tensioni interne - emergono una dopo l'altra dalla profondità del suo essere e irradiano le loro forze. E i loro effetti e influssi sull'uomo superano sempre più facilmente gli ostacoli. In breve, il punto morto si trasforma in essere vivente.
Fra le molte possibilità vanno ricordati due casi tipici: 1. Il punto viene spostato da una condizione pratico fiunzionale a una condizione non funzionale, cioè alogica.
Oggi io vado al cinema
Oggi io vado. Al cinema
Oggi vado. Io al cinema
E' chiaro che, nella seconda frase, è ancora possibile considerare funzionale lo spstamento del punto - sottolineare lo scopo, accentuale l'intenzione, squillo di tromba.
Nella terza frase è in azione la pura forma dell'alogico, che però può anche essere considerata come errore di stampa - il valore interno del punto balena un attimo e subito si spegne.
2. Il punto viene spostato dalla sua condizione pratico-funzionale, in modo da venirsi a trovare fuori dal nesso della frase corrente.
Oggi io vado al cinema
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continua...
(in foto: Tratto Bianco, 1920 ; Vasilij Kandinskij, Olio su tela cm 98 x 80, Colonia, Museum Ludwig)
La cultura artigianale nel Salento Grazia e Piero Manni
1 Novembre 2009 (tratto da: La cultura artigianale del Salento; Grazie e Piero Manni; Editore Manni, San Cesario di Lecce, 2006)
Nel Salento c'era una sola parola -artieri- per denominare l' artigiano e l'artista, ed arte indicava insieme il mestiere e la capacità di creare prodotti culturali: questo avveniva certo non a causa di povertà lessicale, bensì per identificazione dei due concetti di prodotto funzionale e di prodotto artistico, per cui il più delle volte l'attività dell'artigiano conseguiva un esito di utilità ed insieme di equilibrio o piacere estetico, anche nell'oggetto più umile di uso quotidiano: il falegname non mancava mai di arrotondare le gambe di una sedia o di rendere sinuoso il profilo di un comodino; il muratore non rinunciava mai -nemmeno nella edificazione di casupole di campagna- all'ornamento d'un rilievo che correva lungo qualche muro e che magari si identificava con il condotto dell'acqua piovana destinata alla cisterna, il ramaio nel sagomare i recipienti ricercava profili che insieme irrobustissero ed illegiadrissero il prodotto; l'imbianchino nella tinteggiatura anche esterna delle abitazioni si esibiva in alternanze di grandi strisce verticali rosa e tenuemente celesti al vivo biancore calcico, come le tessitrice coniugava colori e fili diversi al telaio in stoffe destinate a dimesse tovaglie o a pedestri strofinacci; per non parlare delle ricamatrici e degli scalpellini e dei battitori di ferro e dei cestai e dei figuli nei cui prodotti la componente estetica risultava prevalente rispetto alla componente funzionale.
La ricerca d'una coniugazione degli aspetti formali con gli aspetti tecnici e pratici certo faceva tesoro di un patrimonio ereditato da esperienze secolari, ma era anche dettata da una consapevole intenzionalità che induceva gli artieri a competere orgogliosamente tra di loro, e che induceva al riconoscimento della bravura, della maestria e della capacità inventiva del migliori, i quali infatti diventavano punti di riferimento culturale e professionale per i discibbuli (discepoli) ma anche per gli altri mesci (maestri, artigiani).
Quasi mai la competizione aveva esiti mercantili, quasi mai l'artigiani più bravo veniva pagato di più: il riconoscimento si traduceva in prestigio sociale, in gratificazione morale; ciononostante, l'artieri per costume e per prassi ricercava il risultato migliore, correggeva, affinava, rifaceva anche, utilizzando tempo che avrebbe potuto impiegare per produrre un'altro oggetto.
Oggi questo modo di fare ci sembra non solo improponibile, ma addirittura inspiegabile: gli è che noi ragioniamo coi lumi di una cultura diversa, di modelli esistenziali diversi, soprattutto in relazione a due fattori.
Il primo riguarda la visione schizofrenica che abbiamo del tempo, noi uomini della società informatica: viviamo in un tempo scisso: quello della produzione -tempo per gli altri, tempo alienato,- e quello che destiniamo a noi, agli affetti ed alla ri/creazione.
E' evidente che quello che ci preme è il tempo per noi, ed il primo è vissuto come una maledizione, come una coatta incombenza da liquidare alla men peggio, nella maniera più rapida possibile e senza grande interesse per i risultati.
Il secondo fattore consiste nel fatto che la ragione prevalente "pressocché totalizzante dell'impegno lavorativo è quella mercantile", del maggiore guadagno possibile; ed anche questa induce ad una attività il più possibile sbrigativa e "produttiva", dagli esiti approsimativi ed insodisfacenti.
Dalla gratificazione sociale in termini di riconoscimento della bravura si è passati alla ricerca della gratificazione in termini economici, ritenuti gli unici oggi capaci di compensare la fatica del lavoro.
Ovviamente, siamo tutti concordi che sia un fatto positivo la scomparsa di quella socità, con tutti gli aspetti terribili di miseria, di disuguaglianza connessi.
La conoscenza di quella società può comunque avere la funzione importante di farci riflettere sui fondamenti, i principi ed i valori della nostra società attuale, comprendderla così da disegnare con consapevolezza la società di domani; la conoscenza della storia -è Bertold Brecht che parla- serve a capire il presente per poter progettare il futuro.
(in foto: Le Tabacchine foto di Franco De Vito)
La Letteratura e il Male di Fabio Canessa
1 Ottobre 2009 (tratto da: Il Male; Editore Skira, MIlano, 2005)
Si scrive per mettere ordine. Nella nostra esistenza e nel mondo. Il carattere necessario della vera letteratura scaturisce proprio dalla volontà di far sgorgare sulla pagina quella vita che, nella realtà, sembra essersi ingolfata di fronte alle mille difficoltà di far andare le cose nel verso desiderato. La grande scrittura nasce sempre da un deficit del vissuto, da un appagamento mancato, dalla frustrazione degli eventi e dalla mancanza di una spiegazione soddisfacente del caotico e doloroso spettacolo che il mondo ci presenta quotidianamente. Tutte le opere immortali della letteratura universale, dalla Divina Commedia al Canzoniere di Petrarca, dall'Orlando Furioso all'Ulisse di Joyce, dai Promessi sposi alla Recherche proustiana, dai grandi romanzi russi ai vertici della poesia novecentesca nascono proprio dall'esigenza di creare un microcosmo di parole che rispecchi il macrocosmo del reale in cui l'autore è vissuto, cercando, contemporaneamente, di enuclearne i meccanismi di funzionamento, di farne emergere i valori e le disfunzioni, per offrire al lettore una guida all'esistenza che prevede una concezione della letteratura come scavo conoscitivo. Solo lo scrittore della domenica si ritaglia il ruolo del consolatore. Compito del vero scrittore è invece quello di inquietare e turbare le coscienze, di 'grattare dove c'è la rogna'. Le sue parole dovranno incidersi nello sguardo e nella mente di chi lo legge come la sentenza della colpa si incide a lettere di sangue sul coro del povero condannato nella terribile macchina di tortura della colonia penale in un celebre racconto di Kafka. Per questo, esaminare il tema del Male nella letteratura significa interrogarsi sul senso ultimo della letteratura, dal momento che, come sul dirsi, nel bene non c'è romanzo. L'Inferno dantesco non è altro che che un colssale inventario dei mali, registrati da una poderosa catalogazione dettata da una sublime unione di dottrina cristiana, razionalità logica e ispirazione poetica. La poesia di Giacomo Leopardi non è che un'appassionata meditazione esistenziale sul Male, che ha come esito la coraggiosa e disincantata affermazione dell'indifferanza della natura, del mondo come "fango" casuale e dell'infinia vanità del tutto". Niente affatto agli antipodi del pensiero leopardiano, il cattolicissimo Alessandro Manzoni, tutt'altro che appagato dalla fede in un disegno provvidenziale degli eventi terreni, indaga, nel romanzo e nelle tragedie, fatti e periodi storici che sembrano smentire una visione edificante degli avvenimenti umani. L'imperscrutabilità dela volontà di Dio lascia irrisolto il problema della presenza del male nel mondo (si pensi alla questione della peste) e la mente dell'uomo, pur se credente, non sa dare una risposta razionale ai perchè del dolore e dell'ingiustizia. Che cosa può fare allora la letteratura di fronte al Male? Quale ruolo le spetta, che non sia solo quello di limitarsi a raccontarlo, con il rischio così di accrescerne la potenza, amplificando con l'eco delle parole l'ansia del lettore? Proprio scegliendo questa strada, la tragedia greca indica una soluzione. Costringendo lo spettatore, seduto a teatro, non solo a seguire le terribili vicende di Prometeo e Edipo, di Oreste e Medea, ma a identificarsi con i protagonisti attraverso il Coro e a lasciarsi trascinare nelle loro sciagurate vite seza via d'uscita. Eschilo, Sofocle ed Euripide sembrano attribuire alle loro opere una funzione terapeutica, attraverso quel meccanismo della catarsi studiando con acutezza da Friedrich Nietzsche. Sulle sue tracce, Giorgio Colli si chiedeva se non fosse proprio questo il senso più profondo dello spettacolo (e della letteratura). Avendo già vissuto, sotto forma di spettatore (non borghesemente distaccato, ma emotivamente partecipe), quanto di peggio gli potrebbe capitare, un greco di duemilacinquecento anni fa sarebbe uscito dal teatro quasi sollevato e liberato dal fardello di angoscia provocato dall'incombere del Male sull'esistenza di tutti. L'arte quasi come un parafulmine, sul quale sia possibile scaricare la tensione di vivere e di soffrire e per mezzo del quale si disperdano le potenzialità nocive e distruttive che minacciano la nostra interiorità. L'idea di una funzione curativa del teatro e della letteratura non va perduta con l'era moderna, ma ritorna ciclicamente, caricata di nuove responsabilità.
Non ho mai letto un libro così empio, - sbottò il lettore
gettandolo per terra.
"Non c'è bisogno di farmi del male, - disse il libro. - Ti daranno di
meno quando mi rivenderai; e poi non mi sono scritto da solo.
"Questo è vero, - rispose il lettore. - Io non ce l'ho con te, ce l'ho
con lautore.
Ah, bene, - disse il libro, - non c'era bisogno però che tu comprassi
le sue tirate.
Anche questo è vero, - ammise il lettore, - ma io lo credevo uno
scrittore allegro.
"A me pare che lo sia, - disse il libro.
"Allora il lettore: Devi essere molto diverso da me.
"Lascia che ti racconti una favola, - azzardò il libro. - Due uomini
fecero naufragio su un'isola deserta; uno di essi finse d'essere a casa
sua, l'altro ammise...
"Oh la conosco bene la tua favola, - disse il lettore. - Morirono
tutti e due.
"Esattamente, - disse il libro, - e morirono anche tutti gli altri.
"Allora il lettore: E' vero, ma proviamo ad andare un pò avanti,
questa volta. E quando furomo tutti morti?
"Furono nelle mani di Dio, esattamente come prima, - disse il libro.
"Non c'è molto da vantarsi, a quanto dici, - esclamò il lettore.
"Chi è empio adesso? - gli chiese allora il libro.
"Il lettore lo gettò nel fuoco senza rispondere.
"Il vile si prostra davanti al bastone
ed ha paura del ferreo volto divino".
(Robert Louis Stevenson, Il lettore e il libro)
(in foto Gosth Soldiers by Daniel Ross www.flickr.com)
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