Diario
Nel cuore una promessa 1 novembre 2012 di Clemente Del Buono
Al termine del romanzo No Country for Old man di Colmac Mc Carthy, lo sceriffo vede un abbeveratoio scavato nella dura pietra a colpi di scappello, lungo quasi due metri, largo mezzo e profondo altrettanto, chissà da quanti anni sta lì, e lo sceriffo dice: “Penso a quel tizio seduto lì con la mazza e lo scalpello, magari un paio d’ore dopo cena, non so. E devo dire che l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una sorta di promessa dentro al cuore. E io non ho certo intenzione di mettermi a scavare un abbeveratoio di pietra. Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa. È la cosa che mi piacerebbe più di tutte”.
Andrea De Simeis una qualche promessa deve averla “dentro al cuore” per farsi carico del lungo, complesso e faticoso processo per realizzare una carta simile alla Whashi ricavandone le fibre dal bianco floema del fico comune.
La usa per le sue stampe, pertanto non è soltanto depositaria di segni e forme, ma quasi si trasfigura da mero supporto a componente dell’atto creativo.
Cosa c’entra questo con l’arte dell’incisione?
Solo chi ha trovato il senso di una rigorosa determinazione può oggi pensare di dedicarsi all’incisione adottandone il linguaggio nella forma più essenziale ed esclusiva: neri segni d’inchiostro su foglio bianco.
Determinazione, pazienza, fatica, silenzio, tempo, profondità… e per ricompensa la qualità, un pensiero, la prossimità al senso delle cose.
È un’impresa di altissima nobiltà, una gesta da cavaliere errante alla difesa di un culto sul punto di scomparire, alla difesa della suprema bellezza di un linguaggio dove i più puri modi aristocratici e popolareschi sono intrecciati con una passione esclusiva.
Lingua salvata al limite che si fa strumento di salvazione per le cose stesse che significa situandole, con la sua forza e la sua purezza, su un piano dove nulla può più contaminarle.
Cavalieri in antiche armature con le loro cavalcature bardate… a quali scontri si preparano, quali battaglie sono pronti a combattere i cavalieri di Andrea De Simeis?
Il cavaliere a celata abbassata arresta netto il suo cavallo e il nostro respiro.
La guerra non è né santa né giusta, né di liberazione, né spacciata per “missione di pace”, altri sono gli scontri che preoccupano i cavalieri dell’armata De Simeis.
Sono gli scontri che preoccupano tutti noi: indossiamo tutti una sorta di armatura psicologica per affrontare le difficoltà lavorative e della vita quotidiana, è il sentimento comune di un destino che si percepisce ineluttabile, la solitudine spoglia del presente si arma contro le insidie della quotidianità che assume natura epica, perché il viaggiare del cavaliere tra le illusioni e i duelli è, lo sappiamo, un itinerario della mente.
Il primo principio di una teoria credo sia l’ostinazione su alcuni temi. Questa ostinazione è il segno più evidente della coerenza autobiografica.
Questa ostinazione permette il dispiegamento di un’esperienza che matura nel tempo, permanendo comunque inalterata la riconoscibilità degli inizi, continuamente, ossessivamente sperimentarti per ripetizione e per variazione.
Non conosco poesia senza una precisa radice, una fedeltà, un ritorno.
Da qualche anno Andrea De Simeis è impegnato in un ambizioso e complesso progetto intitolato Derentò che ha già illustrato nel suo scritto autobiografico.
Sembra quasi che i fatti storici che sono all’origine di Derentò o attendessero Andrea De Simeis per essere tradotti in immagini. È certo che i segni grafici adottati da Andrea per raffigurare i soggetti della sua monografia risultano particolarmente congeniali a restituire le suggestioni di quei lontani avvenimenti che attualizzandosi si prestano a più ampie letture.
Nelle incisioni di De Simeis si sente pulsare l’anima del tempo, c’è un fluire impetuoso di sentimenti e di passioni. Si delinea un universo "epico ed etnico", fortemente connotato antropologicamente. Le graniture di acquatinta, le profonde fenditure a puntasecca, i segni di acquaforte e vernice molle evocano qualcosa di terroso: corpi impastati di argilla e sale.
Le rughe sui volti delle Stiare, o su quello esangue del decollato “Antonio Grimaldo Pezzulla, cimatore di panni”, sono come solchi scavati, stagione dopo stagione, dall’aratro dell’esistenza. C’è la dimestichezza con pratiche misteriche, la concezione di una realtà più enigmatica e oscura delle apparenze razionali.
Per certi aspetti il riferimento figurativo che mi viene alla mente va alla perduta Battaglia d’Anghiari di Leonardo, gli studi soprattutto anche se la ricerca espressiva sui volti dei combattenti in De Simeis si scioglie nell’anonimato individuale, ma rinunciando all’identità cavallo e cavaliere appaiono fondersi in un unico essere, quasi si trattasse di un “regresso” alla più antica figura mitologica del centauro.
Usciamo dall’ambito interpretativo dei soggetti e affrontiamo la specificità delle incisioni, quindi la composizione e il segno.
I rigidi margini regolari della lastra non condizionano la composizione dell’immagine che risulta libera e svincolata anche da ogni contesto di spazio e di tempo.
Poesia e bellezza, inseparabili e indipendenti. Sentire la giustezza compositiva di un’immagine molto prima di averne compreso il significato, grazie a quel puro segno che è solo del più nobile stile.
Le immagini non hanno nulla di accattivante, sono lontane da certa ruffiana gradevolezza estetizzante, tutt’altro che consolatorie, inquietano e turbano.
La cifra stilistica si riconosce nella tessitura di un segno che sembra schizzare dall’immagine mentre la costruisce, schegge acuminate che trafiggono le figure per effetto di malia perché la forma deve distruggersi da sé, ma solo nel momento in cui si compie perfettamente.
È un fitto dardeggiare di luce zenitale in un mezzogiorno salentino.
Il segno di Andrea De Simeis decompone la materia fisica dell’essere e la natura fenomenica della realtà, dissolvendone la sostanza nel pulviscolo incorporeo della memoria. Sublimando i numerosi “stati” necessari a rendere un’immagine nella sintesi unitaria di essenziali e imprescindibili segni incisi, ci restituisce l’evanescenza dell’essere e delle cose in una materia fragile, perché trascendente e spirituale.
Tra gli artisti che conosco Andrea De Simeis è quello che più di altri accompagna il proprio lavoro con una riflessione teorica, motivando le scelte formali e di contenuto, pertanto mi sembra opportuno chiudere il cerchio, ridando la parola all’artista che l’aveva aperto, con un estratto da una e-mail che mi ha inviato:«… pur essendo un figurativo, abiuro la compiutezza finalizzata alla comprensione a vantaggio dell'interpretazione, e trovo di grande effetto quel nero caliginoso che fende a puntasecca alcune aree immagine. In questi spazi di eccellente profondità, che l'occhio schiva per cercare oltre, mi eccita la vertiginosa paura del "sottinteso", la forza del "non detto"».
Come capita agli artisti più sensibili e sinceri Andrea teme il rischio che la necessità di coerenza e riconoscibilità stilistica degeneri nella sclerosi della ripetitività di una soluzione formale, all’opposto l’altra trappola da evitare è esasperare un eclettismo che annulli l’identità. Il solo modo per evolversi che il lavoro di ogni artista può avere, ricavando dal lavoro già fatto nuove illuminazioni, assomiglia a quello con cui il Barone di Münchhausen raggiungeva la luna, ovvero tagliando la corda sotto di sé per allungarla di sopra.
Clemente Del Buono
in foto RENATO ALESSANDRINI (Empoli 1919 – Firenze 1991) Autoritratto nello studio, Acquaforte, 1963
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